Il Paese si confronta con un difficile processo elettorale, rigettato e ostacolato da una coalizione di gruppi di opposizione. Il voto è stato bloccato in molti seggi e il conteggio delle schede, che, dai dati finora diffusi, sembra indicare una conferma del presidente uscente Faustin-Archange Touadéra, è contestato.

 

 

“La situazione è ancora tesa in tutto il Paese. Si registrano violenze diffuse, anche se ancora solo parzialmente quantificabili, una elevata presenza di uomini armati in molte aree e una forte limitazione dei movimenti”. A raccontarlo è Andrew Njoke, capomissione di INTERSOS a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana.

 

Secondo le ultime stime di UNHCR, le violenze hanno spinto circa 30mila persone a cercare rifugio oltre confini, in Repubblica Democratica del Congo, Camerun e Ciad. A questi si aggiungono altre decine di migliaia di sfollati interni. “È ancora difficile avere un quadro esatto dei numeri e delle conseguenze di questa fase di tensione – sottolinea Andrew Njoke – Molte aree sono ancora difficilmente raggiungibili a causa delle attività militari. Sicuramente stiamo assistendo a un nuovo, massiccio sfollamento. In un paese che già conta oltre 600mila sfollati interni, questo significa un ulteriore peggioramento della già fragilissima situazione umanitaria”.

 

Le stesse attività umanitarie di INTERSOS hanno subito limitazioni in alcune aree, in particolare a Bouzoum e a Kabo, dove si sono verificati vari attacchi, fortunatamente senza conseguenze per i civili. Nonostante un accordo di pace siglato nel 2019, la Repubblica Centrafricana vive ancora le conseguenze del conflitto iniziato nel 2013 tra i gruppi armati riuniti sotto il nome di Seleka, rappresentativi dei gruppi musulmani, e anti-Balaka, cui fanno riferimento i gruppi cristiani. Un conflitto alimentato da ragioni economiche e sociali che esacerba la situazione di uno dei Paesi con il più basso indice di sviluppo umano (171mo su 177 paesi al mondo).