“Andiamo noi a cercare chi ha bisogno”. Marcello Rossoni racconta a Stefano Bocconetti come INTERSOS opera in territorio libico

di Stefano Bocconetti

 

 

“Potrà sembrare scontato, lo ammetto, ma tante cose delle missioni le comprendi solo se sei sul campo”. Marcello Rossoni, fino a ieri direttore regionale di INTERSOS per l’Africa centrale e dell’Est, una lunga esperienza in tante situazioni di emergenza nel mondo, dalla Giordania al Sudan, ci racconta, appena rientrato dalla Libia. Da Tripoli. Facile immaginare che lì, “sul campo”, si comprenda meglio la drammaticità dei problemi di un Paese diviso in due, costretto ancora a rinviare le elezioni che avrebbero dovuto rappresentare un primo passo verso la pacificazione. Con il Sud ancora “ingovernabile” e, sotto molti aspetti, quasi inaccessibile. “Ma non c’è solo questo” – dice Marcello Rossoni – “a Tripoli, solo per farti un esempio, mi sono reso conto di quanto sia professionalmente valido il nostro staff” – che, così come sempre avviene nelle missioni di INTERSOS, è reclutato tra il personale locale – “Credo che dipenda dal fatto che fino a non molti anni fa, la Libia disponeva di un sistema di istruzione efficiente, funzionante”.

 

S: Di cosa si occupa esattamente il vostro staff?

M: Ci vorrebbe un’enciclopedia per raccontare tutte le nostre attività, calcola che siamo qui ormai da cinque anni. Con tre “centri” – chiamiamoli così per capire meglio di cosa parliamo – attivi nella regione del Fezzan, a Sud del Paese, nelle località di Tripoli, Bengasi e Sebha. Forse la parola centri non rende bene l’idea delle nostre missioni…”

 

S: Che vuoi dire?

M: “Che anche in Libia, cerchiamo di tradurre in pratica, uno dei motti della nostra organizzazione: invece di aspettare le persone da assistere, le andiamo a trovare. Dai centri, partiamo per andare prima a identificare e poi aiutare le persone più vulnerabili”.

 

S: Dati recentissimi non ce ne sono ma in base al rapporto di due anni fa dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), addirittura il 9% dei migranti in Libia sono minori. Di questi il 34% non è accompagnato. È questo il settore principale di intervento?

M: “Ovviamente. E partiamo da uno dei primi bisogni: il bisogno educativo. Perché questi bambini, questi ragazzi hanno tutti – tutti – dovuto interrompere gli studi, le scuole. Noi, come ti spiegavo prima, partiamo da lì, e contatto dopo contatto, andiamo a vedere se magari hanno famiglia o altre persone alle quali sono legati, con bisogni di vario tipo. Abitativi, innanzitutto, ma poi anche di supporto burocratico, per avere documenti. Oppure, bisogni sanitari, in un Paese dove già prima della divisione non era facilissimo accedere alle cure, in particolare per le donne. In questo quadro, prestiamo molta attenzione a dare supporto psicologico, che non ha meno rilevanza degli altri aiuti. E, ti ripeto per l’ennesima volta a costo di essere noioso, andiamo noi a cercare chi ha bisogno”.

 

S: Prima parlavi di bambini e ragazzi come fossero un’unica “voce” nelle statistiche e nelle indagini sociali. È così, è questa la situazione in Libia?

M: “Si, e mi spiego. Oggi spesso si parla della Libia come Paese di transito delle migrazioni verso l’Europa, fenomeno che molti considerano come un’emergenza, che ha portato ad accordi discutibili fra Stati. Ma questa è solo una parte del problema, forse neanche la più grande. La Libia è da sempre un Paese di arrivo delle migrazioni. Centinaia di migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana, dal Niger, dal Ciad, ma anche da Paesi asiatici e mediorientali con l’obiettivo di restare qui. Tanti anche dall’Egitto. Stiamo parlando di nazioni, o di territori, poverissimi. E lì, in quei Paesi e in quelle zone, a dodici anni non si è più bambini, si è già in un’età dove occorre portare a casa denaro per sostentare la famiglia. E se non c’è possibilità, si emigra, si passa la frontiera. Spesso da soli”.

 

S: E questo enorme flusso non crea tensioni?

M: “Si, certo. Sarebbe assurdo affermare il contrario, tanto più che le migrazioni dagli altri Paesi si sommano, come sappiamo, alle decine di migliaia di libici costretti a spostarsi dentro i confini, come conseguenza del conflitto”

 

S: Tensioni anche nel vostro lavoro? Nei centri?

M: “No e sai perché?”

 

S: Perché?

M: “Perché forse mai come in Libia la policy di INTERSOS è decisiva: noi aiutiamo i vulnerabili. Punto. E in un Paese dove bastano pochi giorni per vedere – fisicamente – quanto larga sia la forbice fra chi ha e chi non ha nulla, noi interveniamo per sostenere tutti. I libici, i profughi interni, i migranti. O le persone che prima avevano un regolare permesso di soggiorno ma che poi, col precipitare della crisi libica, hanno perso quello status e oggi sono considerati clandestini. Tutti, indistintamente”

 

S: Da questo all’ultima domanda, il passo è breve: è difficile portare interventi umanitari in un Paese caotico come la Libia?

M: “Dal punto di vista logistico si, ovviamente. Soprattutto in alcune zone del Sud, dove spesso è complesso garantire la sicurezza. Dal punto di vista “diplomatico”, diciamo così, richiede un lavoro in più. Faticoso: trattare con due governi, discutere con diverse fazioni e milizie all’interno della stessa città, come a Tripoli. Ma anche qui, conta chi sei…”

 

S: Spiegati meglio.

M: “Che ovunque operiamo, come anche in Libia, siamo trasparenti. Siamo terzi rispetto ai conflitti. Lo potete vedere, lo potete verificare. Così ci siamo guadagnati il rispetto da parte di tutti. E questo conta nel nostro lavoro. Conta molto”.

 

[gravityform id=”13″ title=”true” description=”true”]