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In occasione dell’avvio alla Camera dei Deputati dell’esame parlamentare del Decreto-legge, le organizzazioni sottolineano la propria preoccupazione per la prevista accoglienza di minori ultrasedicenni in centri per adulti e per i rischi di respingimento, trattenimento ed espulsione dei minorenni che arrivano soli nel nostro Paese e che potrebbero essere erroneamente considerati adulti per insufficienti garanzie nella procedura di accertamento dell’età.
Il DL Immigrazione e Sicurezza, sul quale inizia oggi, presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, la discussione per la conversione in Legge, desta grave preoccupazione poiché, tra le altre cose, modifica in senso peggiorativo due disposizioni della L.47/2017 sulla protezione dei minori non accompagnati. Questo l’allarme di 25 organizzazioni della società civile attive per i diritti dei minori migranti – ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Caritas Italiana, Centro Astalli, CeSPI ETS, Cir Onlus, CIES Onlus, CNCA, CISMAI, Cooperativa CIDAS, Cooperativa CivicoZero, Defence for Children International Italia, Emergency, INTERSOS, Medici del Mondo, Medici Senza Frontiere, Oxfam Italia, Refugees Welcome, Salesiani per il Sociale APS, Save the Children Italia, SOS Villaggi dei Bambini, Terre des Hommes Italia, UNIRE – che si appellano al Parlamento affinché agisca stralciando tali norme dal testo.
Per la prima volta dalla sua emanazione, un Governo ha deciso di intaccare il sistema di protezione per i minori non accompagnati rappresentato dalla L. 47/2017, adottata ad ampia maggioranza parlamentare e alla cui progressiva attuazione hanno contribuito in questi anni le istituzioni competenti di livello centrale e territoriale, le organizzazioni della società civile e singoli cittadini e cittadine che, come tutori e tutrici volontari, famiglie affidatarie, volontari e attivisti, sostengono ogni giorno bambini, bambine e adolescenti che arrivano soli in Italia.
Contrariamente a quanto disposto dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per l’accoglienza dei minorenni soli, che deve avvenire in affidamento in famiglia o in centri loro riservati, il Decreto-legge in esame prevede che, in caso di indisponibilità di strutture dedicate, i Prefetti possano collocare i minori migranti non accompagnati ultra16enni in centri per adulti. Stiamo parlando di strutture di grandi dimensioni e prive degli standard (in termini di personale, di servizi garantiti ecc.) stabiliti per i minorenni, dove gli stessi non avranno accesso all’assistenza legale e psicologica né a corsi di lingua italiana. Una scelta, questa, che si pone in drammatico contrasto con il principio del rispetto del superiore interesse del minore, oltre che rappresentare una grave discriminazione tra minorenni italiani e stranieri.
Inoltre, rispetto alla determinazione dell’età in fase di identificazione, il testo prevede una deroga alla procedura disposta dalla L.47, in caso di arrivi consistenti, multipli e ravvicinati, a seguito di attività di ricerca e soccorso in mare, di rintraccio alla frontiera o nelle zone di transito e di rintraccio sul territorio nazionale a seguito di ingresso avvenuto eludendo i controlli di frontiera. Si tratta di ipotesi tutt’altro che eccezionali, come abbiamo potuto vedere anche nell’ultimo periodo, nelle quali l’autorità di pubblica sicurezza potrà disporre “rilievi antropometrici o […] altri accertamenti sanitari, anche radiografici” che, in casi di particolare urgenza – non meglio definita dalla norma – potranno essere autorizzati anche oralmente dalla Procura minorile, con autorizzazione scritta soltanto successiva. Questa disposizione, peraltro, non considera necessaria l’autorizzazione scritta del tutore e neanche la sua avvenuta nomina – nonostante si tratti di accertamenti sanitari anche invasivi, come le radiografie. Inoltre, in questi casi non sarebbe necessariamente prevista la presenza di un mediatore linguistico culturale, essenziale per garantire un consenso informato della persona agli accertamenti sanitari richiesti.
Considerando che nessun metodo disponibile, neanche medico, consente la determinazione esatta dell’età, è inoltre molto preoccupante che la norma eluda il principio dell’approccio multidisciplinare, e che preveda un’eccezione alla regola secondo la quale gli accertamenti sanitari, in particolare se caratterizzati da invasività, debbano essere utilizzati soltanto se strettamente necessari e in seguito a metodi meno invasivi, quali il colloquio psico-sociale con l’interessato.
Le organizzazioni ricordano inoltre che la procedura di accertamento dovrebbe essere disposta solo in caso di “fondato dubbio” sulle dichiarazioni dell’interessato e non a libera discrezione delle forze di pubblica sicurezza, sulle quali tale ampia discrezionalità farebbe ricadere una responsabilità eccessiva, oltre che gravosa, nell’ambito dell’identificazione.
Si evidenzia infine che questa procedura, la quale rischia di rivelarsi tutt’altro che eccezionale, unita alla permanenza in centri per adulti e ai termini ristrettissimi per impugnare il verbale di polizia in cui viene dichiarata l’età – 5 giorni – può facilmente portare al respingimento, alla detenzione e alla successiva espulsione di minori dichiarati maggiorenni per errore, aprendo le porte a un destino rischioso e a possibili gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, in particolare per i minorenni provenienti da Paesi cosiddetti “sicuri” e quindi sottoposti a procedure accelerate in frontiera qualora erroneamente considerati adulti.
Tutto questo avviene, sorprendentemente, nonostante l’Italia sia stata condannata più volte dalla Corte Europea dei diritti umani per aver collocato minorenni non accompagnati in centri per adulti e aver condotto procedure di accertamento dell’età senza garanzie procedurali sufficienti.
Per chiunque abbia a cuore i diritti dei minorenni queste modifiche normative sono inaccettabili e si fa appello al Parlamento affinché vengano eliminate dal testo durante l’iter di conversione in Legge. Ammettere deroghe al principio di equità di trattamento tra minorenni italiani e stranieri fuori famiglia rispetto all’ospitalità in affido familiare o in centri loro dedicati, e sottoporre potenziali minori a procedure che non abbiano il rigore e le garanzie necessarie per ogni procedimento che riguardi un minorenne, significa incidere non soltanto sul destino di migliaia di adolescenti migranti che hanno già alle spalle anni di viaggio e di sofferenze profonde, ma anche mettere in discussione il principio della protezione del minore in quanto tale, vigente nel nostro Ordinamento giuridico, e quindi la tenuta complessiva del sistema di tutela di chi rappresenta il futuro del Paese.
Mi chiamo Youssef e sono uno studente. Ho 20 anni e vengo da Al-Bayda, un governatorato dello Yemen. Studio medicina all’Università di Sana’a, questo per me è un privilegio in un paese come lo Yemen, dove il diritto allo studio è spesso negato. Raggiungere questo obiettivo non è stato facile, per me studiare medicina è sempre stato un sogno, ma le poche risorse economiche della mia famiglia e la scarsa offerta formativa del mio Paese, hanno reso il mio percorso più difficile. Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere di poter fare la differenza, continuare a sognare un futuro diverso. Vorrei diventare un medico, poter curare più persone possibili che ad oggi non hanno accesso alle cure. Nella mia città natale immagino che un giorno possa esistere un ospedale dove farsi curare possa essere la normalità e non più un diritto di pochi.
Sono Dania Yousef Madi, ho 26 anni e sono Palestinese. Studio ingegneria delle telecomunicazioni.
Le telecomunicazioni sono un campo molto vasto. L’ho scelto perché mi hanno sempre divertito le tecnologie, i segnali. Come sono collegate le chiamate, a quale larghezza di banda operano le aziende, ecc. Ha una buona prospettiva per il futuro, perché, come tutti sappiamo, la tecnologia sta aumentando. E la comunicazione è qualcosa che è molto importante nella vita quotidiana. Quindi, le possibilità non finiranno mai in questo campo
I miei genitori sono divorziati e mia madre era un’insegnante che cercava di prendersi cura di quattro figli, eravamo lontani dall’essere benestanti. L’unico modo che avevo per continuare i miei studi era ottenere la borsa di studio. Questo sostegno finanziario mi ha permesso di rimodellare la mia vita per proseguire meglio i miei studi universitari. Lavoravo mentre studiavo all’università, con la borsa ho potuto ridurre le ore di lavoro e dedicare più tempo allo studio, al completamento dei miei compiti di valutazione e, soprattutto, alla preparazione degli esami. Un grande peso mi è stato tolto dalle spalle grazie alla borsa di studio DAFI. Questa borsa di studio mi ha davvero concesso una seconda possibilità per raggiungere i miei obiettivi e lavorare al massimo delle mie potenzialità
Attualmente lavoro come education officer in INTERSOS e mi sforzo di non smettere mai di imparare e sviluppare le mie capacità, iscrivendomi e frequentando alcuni corsi e conferenze. Il mio sogno è quello di aiutare gli altri a realizzare il loro sogno. Fare qualcosa di prezioso per gli altri. Più in profondità, voglio vivere libera e aiutare gli altri a vivere liberi e appagati. Inoltre, un altro dei miei sogni più grandi è continuare gli studi e fare un master, che è il percorso migliore per lo sviluppo della carriera e un futuro migliore.
Mi chiamo Abd al-Karim Tawfiq Ahmed. Ho 24 anni e sono cresciuto nel governatorato di Al Dhalea, nello Yemen settentrionale. Sono uno studente di medicina al quarto anno presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Sana’a. Ho scelto medicina perché ho un forte interesse e una passione per la scienza, guidati da un innato desiderio di fare il possibile per aiutare le persone che soffrono. E poi la professione medica è una delle più ambite al mondo, competitiva e rispettabile.
Nel corso dei miei studi ho imparato il significato delle parole impegno, perseveranza e diligenza. La borsa di studio di Fondazione Lavazza mi ha aiutato a superare molte sfide, la copertura delle tasse universitarie in primis, che è stata per me una costante fonte di preoccupazione. Inoltre, la borsa di studio è un sostegno essenziale per le spese quotidiane.
Dopo aver ricevuto la borsa di studio di Lavazza, qualcosa è cambiato nel mio approccio e ora ho una visione più positiva della vita. Ho iniziato a studiare col sorriso e mi rendo conto di quanto sono fortunato ad avere avuto questa opportunità. Mi impegno di più con i miei compagni di corso e chiedo ai docenti ogni volta che c’è qualcosa che non capisco. Fin qui studiare non è stato facile, ma continuo a impegnarmi al massimo e spero tutto vada per il meglio, devo credere che sono in grado di diventare un buon medico!
In passato scherzavo sulla possibilità di diventare medico: oggi sono uno studente di medicina al quarto anno e ho ottenuto una borsa di studio che mi permette di credere in un sogno che si sta realizzando, di lavorare sodo, di potermi vestire bene, di avere le risorse per rendermi presentabile e non mollare mai. La borsa di studio ha acceso in me un rinnovato senso di ottimismo, dopo la laurea vorrei continuare il percorso di studi e intraprendere un master.
Mi chiamo Doa’a. Sono nata in Yemen in una famiglia povera.
Il mio futuro sembrava già scritto: una vita di privazioni, di lotta per la sopravvivenza e di sogni sepolti. Ero solo una bambina e già portavo sulle spalle il peso di un contesto particolarmente complesso per le donne a cui spesso viene negata la possibilità di scegliere.
Poi, un giorno, tutto cambiò con la mia determinazione a non accettare un destino già stabilito. Decisi di studiare ed avere un futuro diverso. Con fatica e sacrifici sono riuscita ad iscrivermi alla facoltà di Odontoiatria. Poi è arrivata la borsa di studio che mi sta permettendo di continuare il mio percorso accademico e di avvicinarmi sempre di più al mio obiettivo: diventare una dentista.
Doa’a è una studentessa che rientra nel nostro progetto “Borse di studio per l’istruzione di giovani yemeniti” finanziato da Fondazione Lavazza. La storia di Doa’a è una storia di resilienza e di speranza. A quasi un decennio dall’inizio del conflitto, il nostro intervento in Yemen non ha garantito solo accesso a cure mediche e beni essenziali o protezione per le persone sopravvissute a violenza. Abbiamo sostenuto anche l’istruzione perchè crediamo che l’unico modo per superare i conflitti sia investire nella formazione delle giovani generazioni.
Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.