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Enrico Capozzo è una di quelle persone che non si accontentano di stare chiuse nel proprio mondo. Sono curiose di conoscere cosa c’è oltre l’orizzonte. E, se possono e se c’è bisogno, si rimboccano le maniche e danno una mano.
Da qualche giorno è tornato in Italia dopo un mese di permanenza in Niger, dove ha aiutato la giovane missione di INTERSOS a implementare le attività con i giovani migranti del centro umanitario per minori di Agadez.
“Avevo già fatto una esperienza di volontariato con INTERSOS, nel 2014 in Repubblica Centro Africana. In quella occasione mi ero perfino preso la malaria. Questa volta sono andato ad Agadez con un compito ben preciso: organizzare un centro di animazione insieme ai ragazzi che fanno parte di un gruppo di rifugiati che vive in un campo a 17 km dalla città”, ci racconta Enrico.
Con operosità veneta Enrico si mette subito al lavoro: “Fortunatamente abbiamo trovato del materiale usato che ci ha permesso di costruire un riparo dal sole, indispensabile per organizzare attività in mezzo al deserto. Abbiamo subito creato una bella squadra: io, Alì, che è un saldatore e Hamanu, apprendista. Durante il giorno il vento alzava la sabbia, le temperature vicine ai 40 gradi, la sete che obbligava a bere ogni 10 minuti. Erano tutti molto interessati al riparo che stavamo costruendo e non era facile tenerli al di fuori della zona di lavoro, dove può essere pericoloso stazionare. La condivisione era completa, lavoravamo assieme rispettando le pause ed i tempi per la preghiera. Ricordo il the e il cibo cucinato sui carboni accesi, l’acqua del bidone non molto pulita, la stanchezza, il sudore, il riposo sulla stuoia col vento del deserto che ti asciuga anche l’anima, la scintilla della saldatrice che ti ferisce gli occhi, gli imprevisti che fermano il generatore, il sorriso e la soddisfazione per il risultato raggiunto nel rispetto e nella fiducia reciproci”.
Ma il lavoro non finisce dopo la costruzione di uno spazio sicuro dove i ragazzi si possano riunire, e così Enrico attinge alla sua esperienza di educatore scout. “È stato un piacevole tuffo nel passato ripercorrere tutto il lavoro di preparazione che precede il momento del gioco con i ragazzi. Ho organizzato un incontro di formazione con gli animatori che struttureranno le attività con i ragazzi del centro per minori migranti. Si tratta di insegnare il valore educativo del gioco, si trasmette cultura e non solo intrattenimento. Ho proposto un paio di giochi adatti a ragazzi dagli 11 ai 15 anni. È stato bello vedere come , immediatamente, siano nate, anche da parte loro, altrettante proposte formative da sviluppare”.
Enrico si ritiene molto fortunato ad avere un lavoro che gli permette di vivere queste esperienze: “Io non sollecito mai le persone che incontro a raccontare le loro storie, perché sono sempre molto dolorose. Ma dopo tante ore passate insieme succede che ci si confidi. Sono ragazzi che hanno affrontato prove durissime. Auguro loro tutto il meglio per il futuro, perché se lo meritano davvero”.
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Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.