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Arrivano dai paesi confinanti, Mali, Chad, Nigeria, in cerca di sicurezza e di un futuro migliore. Alcuni anche da più lontano. Ahmed, 17 anni, è originario del Darfur, di un piccolo villaggio vicino a Nyala, nel sud del paese.
“La nostra area era da tempo sotto attacco delle forze armate Janjawid. Eravamo preoccupati ma non sapevamo dove andare e così ogni giorno ci ripetevamo che, magari, non sarebbero arrivati anche da noi” – racconta Ahmed. “Ma non è stato così. E quando alla fine hanno attaccato il nostro villaggio è stato terribile. Mio zio e mio fratellino sono stati uccisi mentre io, mia madre, mia sorella e mio padre siamo riusciti a scappare. Siamo andati verso Nord, percorrendo a piedi 60 km di deserto. Alla fine ci siamo fermati a Kutum, sperando di aver trovato un posto sicuro”.
Purtroppo le speranze di Ahmed e della sua famiglia vengono deluse. Le razzie dei gruppi armati rendono la vita nel nuovo villaggio sempre più difficile. Durante uno degli attacchi la sorella viene violentata e il padre, nel tentativo di difenderla, viene ferito gravemente a una gamba, perdendone l’utilizzo.
A quel punto Ahmed, che sente ormai la responsabilità del capofamiglia, decide di lasciare il paese alla ricerca di un lavoro.
“Ho lavorato in Ciad come pastore, per mettere da parte i soldi per arrivare il Libia. La mia intenzione era quella di trovare un lavoro lì e mandare i soldi alla mia famiglia. Invece appena entrato nel paese sono stato rapito da una banda armata e tenuto prigioniero per 45 giorni.”
Condizione per la liberazione era il pagamento di un riscatto ma, né lui né la sua famiglia erano in grado di farlo. E così viene torturato per giorni fino a quando, legato e bendato, viene portato in una fattoria e costretto a lavorare in condizioni di schiavitù.
“Lì ho incontrato un ragazzo del Darfur. Siamo diventati molto amici. Dopo tanto riflettere ci siamo fatti coraggio e siamo riusciti a fuggire. Il viaggio non è stato facile. Siamo stati fermati e trattenuti per dei giorni da altre due bande armate, che speravano di poter ottenere dei soldi dalle nostra famiglie. Ma alla fine siamo riusciti a raggiungere il Niger” continua Ahmed.
Ma anche l’inizio della sua permanenza sul territorio nigerino è stato molto difficili. Per i primi tre mesi ha dormito per strada. Successivamente ha trovato riparo presso un centro di solidarietà dove è rimasto per sei mesi.
“Appena arrivato avevo ancora moltissima paura. Dormivo per strada e ogni giorno non sapevo se sarei riuscito a procurarmi da bere e da mangiare. E poi le notizie che ci arrivavano erano poco chiare e ci spaventavano. Il governo del Niger ancora non aveva deciso se concedere la protezione umanitaria per chi veniva dal Sudan ed eravamo terrorizzati all’idea di essere rimpatriati” dice tristemente Ahmed.
Da un anno Ahmed si trova nel centro umanitario di Agadez, dove operano INTERSOS e UNHCR per assicurare servizi di protezione fondamentali per i minori migranti e richiedenti asilo nel paese, in particolare nel centro. Sono stati costruiti degli “spazi protetti” dove i minori possono trovare riparo, screening medico, supporto legale e accesso a servizi educativi.
È qui che, pian piano Ahmed ha ripreso fiducia in se stesso, ed è diventato rappresentante del comitato di minori del campo, un punto di riferimento per tutti i più giovani che, come lui, sono lontani da casa, completamenti soli, alcuni senza più contatti con i propri familiari.
“Tanti miei coetanei, a causa degli abusi subiti nel loro paese d’origine o durante il viaggio, delle profonde perdite avute, hanno completamente perso la serenità e la stabilità mentale. Alcuni di loro, senza più speranze per il futuro, si incamminano nel deserto, cercando di raggiungere la Libia, e spariscono per sempre”.
Anche se sa che non può convincere tutti i minori ad avere pazienza e a non allontanarsi, Ahmed sa di avere il dovere di essere da guida per tutti loro, per cercare di confortarli e sostenerli.
“I giovani africani hanno perso la loro dignità, i loro diritti, hanno attraversato mille difficoltà e problemi ma possiamo ancora, tutti insieme, aiutare i bambini di oggi e di domani a non dover più vivere quello che noi stiamo vivendo ora. Aiutateci a riconquistare un po’ di speranza. Miglioriamo le condizioni di vita dei minori rifugiati in Niger e garantiamo un futuro migliore a tutti bambini del mondo”.
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Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.