Il paese più piccolo dell’Africa, con una popolazione di meno di due milioni di abitanti, il Gambia è conosciuto affettuosamente come “la piccola Giamaica”, per l’amore per la cultura dell’isola caraibica che lo contraddistingue. Avendo conosciuto la stabilità politica fin dall’indipendenza dall’Inghilterra (1965), ed essendo un paese con bassa criminalità e piuttosto accogliente per chi può spendere tanti dalasis (moneta locale), questa sottilissima lingua di terra, che dall’Oceano Atlantico si estende lungo il Senegal, è ormai da anni una delle mete preferite dei turisti nordeuropei.

E’ proprio dal Gambia che viene Bakary, uno dei ragazzi che, grazie al lavoro di INTERSOS in Sicilia, ha ricevuto supporto durante le varie fasi del suo percorso di accoglienza. Nato nella aristocrazia militare gambiana – il padre faceva parte della selezionatissima cerchia di coloro che si occupavano della sicurezza del Presidente Yahya Jammeh – Bakary aveva goduto di un’infanzia molto privilegiata: una bella casa, servitù, viaggi all’estero e scuole internazionali. Conosceva la realtà del proprio paese, ma la vedeva da lontano, da una prospettiva distorta, proprio come quella dei turisti che prendono il sole, bevono rhum, ballano e si divertono fino a tarda notte sulle spiagge della piccola Giamaica.

Proprio di fronte a quelle coste si trova l’isola di Kunta Kinte, simbolo di secoli di schiavismo, dalla quale si calcola siano transitati almeno 3 milioni di schiavi in partenza per le Americhe. Se ci si inoltra verso l’interno, lasciandosi alle spalle quelle spiagge incantate, si trova solo terra arida. Il territorio è coltivabile per un sesto del totale e, data la scarsa qualità, l’agricoltura si basa sulla monocoltura dell’arachide e poche altre colture di sussistenza come il miglio, il mais, e la manioca. Circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e la mortalità infantile e materna sono ancora molto alte.

Ma per Bakary tutto questo era una realtà lontanissima quando, a novembre del 2016, suo padre lo chiama e gli presenta Mamadou un ragazzo di circa 20 anni, poco più grande di lui che ne ha solo 16, e gli dice: “Bakary, si avvicina un periodo molto difficile. Devi essere forte. So che in questo momento non capisci perché ma dopo le cose ti saranno più chiare. Devi assolutamente lasciare il paese. Sarà un viaggio molto difficile. Fai tutto quello che ti dice Mamadou e non separarti mai da lui. Vedrai che ti porterà in salvo e appena sarà possibile io, te la mamma e Ahmed (il fratellino) ci riuniremo”.

Bakary parte e affronta il viaggio della speranza, con tanti altri migranti, attraverso il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, il Niger, il deserto e infine la Libia, dove lui e Mamadou vengono separati. Dopo qualche mese in Libia riesce finalmente a imbarcarsi e ad arrivare in Italia. E’ un viaggio breve quello di Bakary, solo cinque mesi, ma è un corso accelerato di vita e di maturazione in cui finalmente apre gli occhi e comincia a ragionare con la sua testa.

Guardando le notizie e ascoltando la radio durante la fuga capisce anche perché il padre lo ha fatto fuggire: a dicembre 2016 si sono tenute le elezioni e, dopo 22 anni al potere, il Presidente Jammeh, di cui suo padre è uno degli uomini più fedeli, è stato sconfitto dalla coalizione guidata da Adama Barrow. In un attimo la famiglia di Bakary deve confrontarsi con la perdita dello status sociale: da élite del paese a opposizione.

La complessa fase di transizione democratica avviata dal cambio di governo non è priva di tensioni e conflitti, che, soprattutto nei primi mesi, sfociano anche in scontri armati. Ecco perché Bakary capisce di essere dovuto partire. Ed ecco perché anche il padre, nel timore di rappresaglie o ripercussioni legali, in quanto uomo di stretta fiducia del passato governo, cerca rifugio negli Stati Uniti. Restano tuttora in Gambia solo la mamma e il fratellino che, in quanto donna e minore, corrono minori rischi.

Bakary sa che tornare nel proprio paese non è possibile. C’è da affrontare una nuova vita. E deve farlo da solo e senza la protezione di una famiglia facoltosa e potente sulla quale ha potuto contare fino a quel momento.
Vista la sua età all’arrivo in Italia – Bakary aveva 16 anni appena compiuti – lo Stato italiano lo ha accolto in una comunità per minori stranieri non accompagnati, nella quale ha avuto la possibilità di richiedere protezione internazionale. Nei due anni di attesa, ha frequentato le scuole ed ha avuto la possibilità di integrarsi a piccoli passi nel territorio.

A gennaio 2018 ha ricevuto l’invito in udienza per la commissione territoriale, l’organo che emette le decisioni di esito positivo o negativo alle domande di protezione internazionale. Dopo qualche mese è arrivato l’esito. A Bakary è stata concessa la Protezione per motivi Umanitari, una protezione di due anni, concessa dallo Stato italiano.

A Bakary piacerebbe proseguire gli studi, poter andare all’università e diventare giornalista. In qualche modo, nella condizione di rifugiato, la sua visione del mondo si è allargata. La sua consapevolezza sociale, non più filtrata dal privilegio e dalle scelte che altri facevano per lui, arriva finalmente a comprendere una parte di società che prima ignorava del tutto. E Bakary adesso vorrebbe che anche altri aprissero gli occhi come lui.

Foto Cristina Mastrandrea