Edoardo Albinati torna a Kabul vent’anni dopo il primo viaggio e un anno dopo la vittoria dei talebani. Con lui c’è Francesca d’Aloja, anche lei scrittrice

di EDOARDO ALBINATI e FRANCESCA d’ALOJA
pubblicato su laLettura del Corriere della sera

 

 

EDOARDO ALBINATI — Sul volo Doha – Kabul siamo in cinque, l’aeroporto di Kabul è deserto.

 

FRANCESCA d’ALOJA — Siamo in Afghanistan per visitare alcuni presidi medici dell’Ong italiana INTERSOS. I messaggi che il primo wifi disponibile ci trasmette sono tutti allarmati e allarmanti: da quelli ufficiali, come l’Unità di Crisi della Farnesina, che «sconsiglia di recarsi in Afghanistan a qualsiasi titolo», a quelli familiari: «Ma è pericoloso, state attenti!». «Mi raccomando, tornate presto a casa…». Il mio stato d’animo, oltre all’eccitazione di essere entrata in un Paese quasi offlimits, è di apprensione, forse più indotta che percepita. Chiamo Alberto Cairo che qui vive e lavora da trent’anni, per salutarlo, ma anche per farmi rassicurare, e lui lo fa, con il solito garbo. Certo, tutto ciò che ci circonderà nei giorni a venire sta lì a ricordarci di non abbassare mai la guardia, ma non posso nascondere quanto le paure iniziali si siano via via stemperate. Come sempre la presenza sul campo aiuta a calibrare le allerte, e alla tensione iniziale si è aggiunto un inesausto stupore per tutto ciò che i nostri occhi e le nostre orecchie sono riusciti a percepire: l’Afghanistan non somiglia a nessun Paese al mondo, i riferimenti occidentali che nel bene e nel male apparentano le nostre città, qui spariscono: percorrere le strade di Kabul (mai a piedi e sempre in automobile!) e ancor di più sconfinare nelle aree rurali, equivale a un viaggio nel tempo. La nostra avventura afghana comincia un venerdì, giorno festivo dedicato alla preghiera (il più esposto a rischi pervia dei possibili attentati alle moschee); nonostante questo ci concediamo un giro in città, con le dovute precauzioni, e subito capiamo quanto anche il più banale spostamento qui diventi eccezionale: i posti di blocco delle milizie talebane sono ricorrenti, e malgrado i lasciapassare concessi a Intersos, l’accostarsi a giovani uomini barbuti con kalashnikov a tracolla mi provoca un brivido. Anche a questo ci abitueremo.

 

EDOARDO ALBINATI — In cima alla collina di Wazir Akbar Khan, penzola un po’ floscia l’immensa bandiera bianca dell’Emirato Islamico. È lì dall’agosto dell’anno
scorso ma ha i bordi già un poco sbrindellati. Subito accanto, una piscina panoramica in stato di abbandono, protetta da reti metalliche e filo spinato, che ragazzini
incuranti scavalcano per andare a sguazzare in un metro di acqua stagnante. Bambini e ragazzini ridenti sono, da sempre, i veri protagonisti di ogni racconto sull’Afghanistan.

 

FRANCESCA d’ALOJA — Ora ci spostiamo ai margini della città (meglio evitare il centro…), in uno dei posti più assurdi che abbia visto in vita mia: una vallata resa più vasta dal prosciugamento del laghetto che ne lambisce i contorni, attraversata insensatamente da motociclette sgangherate e ronzini al galoppo. Sullo sfondo un desolato luna park e una serie di chioschetti semiabbandonati dove i kabulesi erano soliti rifocillarsi durante la gita fuori porta. Pranziamo all’hotel Serena, un tempo rifugio degli occidentali, tuttora considerato un possibile target e dunque iperblindato (la qual cosa ci rassicura e ci inquieta al tempo stesso). Sembra di entrare in ima base militare: controlli, scanner, perquisizioni. Di fronte al nostro sguardo perplesso ci spiegano che fino a pochi mesi fa l’albergo era davvero impenetrabile, gli sbarramenti da superare erano otto e sull’area volteggiava costantemente un elicottero di ronda. Questo va tenuto a mente quando si tenta di raccontare quel che accade qui, ricordando sempre quel che è accaduto prima, non dimenticando chi siamo noi e chi sono loro. Vedere, ascoltare, stare sul posto aiuta a diradare la nebbia che avvolge un tema così complesso, ma illudersi di capire fino in fondo è da stolti.

 

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