Martina Martelloni di INTERSOS arriva in Ucraina per documentare le operazioni in corso per aiutare gli sfollati a far fronte all’inverno e alle conseguenze della guerra. Questo è il racconto del suo viaggio

 

 

Per raggiungere la città di Poltava, nell’est dell’Ucraina, si impiegano circa tre giorni dall’Italia. Lo spazio aereo sul Paese è chiuso da febbraio scorso, in tempi di guerra nessuna compagnia civile può sorvolare il territorio. Ci arrivi partendo da Roma con un volo diretto a Chisinau, capitale della Moldavia, ci resti una notte per poi, da quello che è il Paese più povero d’Europa e che ha accolto migliaia di famiglie ucraine fuggite dal conflitto, sali su un’auto e attraversi il confine. La fila in uscita alla frontiera è abbastanza scorrevole, non sono in molti a fare ritorno nel Paese soprattutto ora che l’inverno è arrivato e l’andamento del conflitto è indecifrabile, la situazione rischiosa.

La prima tappa della missione è la città di Vinnytsia: siamo nel centro dell’Ucraina, a circa quattro ore dalla capitale Kiev. Le strade sono larghe e poco trafficate, attraversano vaste distese di boschi, una luce bianca sovrasta le cime degli alberi che appaiono a tratti segmentate dalla nebbia. Questo è il cielo dell’Ucraina, un colore inconfondibile che rende insatura ogni singola sfumatura. Mi accompagnerà per tutta la durata del viaggio. Vinnytsia mi accoglie con immagini di una quotidianità che scorre regolarmente; gente in strada che passeggia, negozi aperti, il mercato in piazza, auto in strada ad ogni incrocio. Se non si avesse contezza di ciò che sta accadendo, qui, pare che la guerra si sia dissolta. Ma è la realtà a dare forma alle cose e al tempo che questa gente sta vivendo da quasi dieci mesi. Percorrendo una delle strade principali della città, ad un tratto si apre l’immagine della distruzione. Un grande palazzo si mostra con cumuli di macerie e pezzi di intonaco sparsi tutto intorno, è ciò che resta dell’attacco missilistico dello scorso 14 luglio, quando l’intera struttura composta da uffici e centri medici è stata colpita in pieno giorno. Sono morte 22 persone, di cui 3 bambini.

La guest house di INTERSOS dista pochi minuti dal centro, colleghe e colleghi ucraini e internazionali hanno fatto di questa la loro casa. A distanza di poche ore arriva il secondo segnale che ci ricorda di essere in guerra. Suona l’allarme antiaereo, scendiamo tutti nel bunker sotterraneo, la parte più sicura della casa. I telefoni vibrano e rilanciano tutti l suono dell’app istituzionale che le autorità consigliano altamente di utilizzare. Trascorrono i minuti, quasi tutti continuano a lavorare con i computer portatili, qualcun altro si concede due chiacchiere col vicino. Altri ancora, tipo me, restano fermi e in silenzio. Dopo circa un’ora suona il secondo allarme che dà il via libera, possiamo uscire. Come tutto l’oblast di Vinnytsia, questa zona è diventata un punto di riferimento per gli sfollati interni. La maggior parte delle famiglie fugge da Sud e da Est e da mesi vive nei vari centri di accoglienza allestiti in palazzine o strutture di varia natura sparse per il territorio.

Lo stesso scenario a Poltava. Il mattino seguente inizia il viaggio in auto per raggiungere questa area così vicina alle zone più coinvolte nel conflitto in corso. Poltava è situata al di là del fiume Dnipro, separa l’Est e l’Ovest e dista circa 100 km de Kharkiv. Dopo quasi otto ore di auto, aver attraversato Kiev e incontrato almeno quattro o cinque checkpoint lungo il percorso, arriviamo finalmente a Poltava. Il buio delle strade e la nebbia che nasconde le luci dei semafori sono una chiara istantanea delle conseguenze di una guerra. La mancanza di corrente è la costante per chi abita in questa parte di territorio, perché gran parte delle reti elettriche è stata distrutta dai bombardamenti. La poca elettricità rimasta va razionata, le autorità locali la forniscono a slot di tre o quattro ore per poi toglierla nuovamente. Chi non ha un generatore privato, come la maggior parte della popolazione, resta al buio e senza riscaldamenti per diverse ore durante tutto l’arco del giorno e della notte. La prima sera nella stanza del mio hotel, ho atteso sveglia fino alle due che tornasse la corrente, l’allarme ha suonato un paio di volte, fuori dalla finestra tutto appariva completamente nero.

Vivere senza corrente è molto più duro di quanto si possa immaginare a distanza. Bisogna calcolare le azioni da svolgere, quasi ogni attività giornaliera può richiedere l’uso della corrente: dal lavarsi al cucinare, lavorare o studiare. Dal secondo giorno ho fatto di una candela la mia compagna notturna. “Con il passare del tempo ci si abitua anche a questo”, mi dicono le persone sfollate accolte nella scuola primaria di Dykan’ka, un villaggio a circa mezz’ora da Poltava. È qui e in altre scuole del territorio che INTERSOS sta distribuendo beni di prima necessità, ristrutturando le classi e assistendo le 70 persone ospiti con psicologi e attività sociali di vario genere. Conosco Maria e Tatiana, madre e figlia che non smettono di piangere nel raccontare il loro trauma più grande, hanno perso un nipote di 14 anni rimasto vittima di un attacco missilistico nella città di Lyman, nella regione di Donetsk. Vivono in queste aule dal mese di maggio. Maria ha circa 80 anni, cammina appoggiandosi ad un bastone di legno consumato, è disturbata dai suoni circostanti e continua a cercare le mani dell’operatrice che le sta accanto. Tatiana mi mostra le foto del nipote, le ha attaccate sopra il letto insieme alle altre dei suoi familiari: “Gli avevo promesso che sarebbe sopravvissuto”, mi dice fissando il pavimento.

Il freddo aumenta con il passare delle ore, si arriva allo zero con rapidità e con sopraggiungere della notte, la neve cadrà presto anche qui ed è sempre più urgente non lasciare sole le oltre 200mila persone arrivate nella regione di Poltava, che ospita uno dei numeri più alti di sfollati. Le file di donne, uomini e bambini che ho visto nel mese di marzo passare il confine con la Moldavia e la Polonia, si formano nuovamente qui per ricevere i pacchi umanitari. Sin dalle prime ore del mattino raggiungo un centro di raccolta della città dove INTERSOS distribuisce beni essenziali. Sono in tantissimi in attesa del loro turno. Percorro lateralmente la fila e fotografo i volti di questa gente che non appare mai rassegnata. Una donna di 90 anni abbraccia Clara, una nostra operatrice, si commuove e la ringrazia per quello che ha ricevuto. Mi mostra l’interno del pacco: pasta, caffè, biscotti, scatolame e altro cibo liofilizzato che non richiede la cottura e l’uso della corrente.

Dopo circa quattro ore la fila si smaltisce; le persone, provenienti principalmente da Kharkiv, Donetsk e Lugansk, tornano nei centri di accoglienza o negli appartamenti in cui sono ospitati. La vita in Ucraina si consuma nella prima parte del giorno, dal primo pomeriggio in poi cala il buio, il freddo e il coprifuoco alle ore 22 non lascia molto spazio ad altro. La sospensione e l’attesa sono comune denominatore per ogni casa ed ogni famiglia. Non c’è una persona che non abbia un conoscente, un parente o un amico rimasto vittima o ferito dalla guerra. Non c’è una persona che non conosca qualcuno che ha scelto di lasciare l’Ucraina o andare sulla linea del fronte. Vivere in queste condizioni per pochi giorni non è nulla, si ha la consapevolezza di dover tornare; ma per chi resta questa è la nuova normalità dal 24 febbraio.

Le organizzazioni umanitarie che operano qui condividono con la popolazione una parte dei disagi: portare avanti il proprio lavoro senza luce e riscaldamento, scendere e risalire dal bunker, non sapere mai fino in fondo se quell’allarme antiaereo sia preventivo o un reale e vicino attacco. Io sono tornata a Roma, in Italia, ripercorrendo quello stesso tragitto in auto attraverso il cuore dell’Ucraina fino alla Moldavia. Le immagini che ho scattato, i video e le storie che ho raccolto proseguono il racconto di quanto accade nel paese da febbraio, sono la testimonianza del lavoro e della dedizione che, sul campo, gli operatori e le operatrici svolgono ogni singolo giorno.

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