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É passato un anno dalla presa del potere dei talebani, il 15 agosto del 2021, ed è passato un anno dalla promessa, fatta dalla comunità internazionale, di non abbandonare l’Afghanistan. A dodici mesi dagli eventi di quei giorni, però, l’attenzione sul Paese si è quasi completamente spenta. I fondi destinati agli aiuti per la popolazione sono stati ridotti drasticamente e della crisi che il Paese vive si parla sempre meno.
L’Afghanistan però è ancora lì e la popolazione – come possiamo testimoniare noi di INTERSOS presenti nel Paese da più di 20 anni – continua a vivere in un Paese martoriato da una crisi cronica, che affonda le radici in un conflitto ultradecennale, ma che negli ultimi mesi si è aggravata in modo drammatico: 7 milioni di persone oggi vivono sull’orlo della fame; nel Paese mancano le strutture e il personale sanitario (prima dell’agosto 2021, l’assistenza sanitaria in Afghanistan era in gran parte finanziata dalla Banca Mondiale, ma questo finanziamento è stato tagliato dopo la presa del potere da parte del nuovo governo); l’accesso alle cure per le donne è difficile e la percentuale di donne che muore durante il parto è tra le più alte al mondo; i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati del 40% dallo scorso agosto, la moneta ha drasticamente perso valore rispetto al dollaro e la crisi di liquidità, insieme al taglio dei fondi internazionali e alla chiusura dello spazio aereo, sta rendendo più difficile l’arrivo gli aiuti umanitari.
Nei primi sei mesi del 2022, l’ospedale provinciale della provincia afghana di Zabul – dove gli operatori e i sanitari di INTERSOS lavorano – ha registrato un aumento del 70% nel numero di bambini malnutriti ricoverati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: una chiara indicazione dell’impatto catastrofico che la crisi economica, il congelamento dei beni dell’Afghanistan e la sospensione dei finanziamenti per lo sviluppo stanno avendo su alcuni dei cittadini più vulnerabili del Paese, ha dichiarato l’agenzia umanitaria INTERSOS.
“La situazione in Afghanistan peggiora di giorno in giorno e non c’è modo più chiaro per rendersene conto se non attraverso le condizioni disperate dei bambini gravemente malnutriti che stiamo curando” dice Sergio Mainetti, direttore Afghanistan ad interim di INTERSOS. “Il mese scorso -racconta- abbiamo ricoverato quasi 150 bambini nel reparto di nutrizione dell’ospedale provinciale di Zabul e questa settimana abbiamo avuto in cura fino a 33 bambini molto malati. Tuttavia, ci sono solo 15 letti disponibili nel reparto, il che significa che l’ospedale sta operando con una capacità più che doppia. Per far fronte a questa crescente pressione, il nostro team di nutrizionisti ha dovuto mettere due, a volte tre, bambini in ogni letto per garantire loro le cure”.
“Quello che stiamo vedendo nella provincia di Zabul è indicativo di ciò che sta accadendo in tutto l’Afghanistan”, continua Mainetti. “Il crollo economico provocato dalle sanzioni contro i Talebani e il congelamento dei beni del Paese stanno avendo un impatto devastante. Le persone hanno perso il lavoro, i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle e, come se non bastasse, la siccità ha fatto sì che molti perdessero anche i loro mezzi di sostentamento. Tutto ciò significa che non possono permettersi di sfamare le loro famiglie e nelle nostre cliniche e nell’ospedale che sosteniamo vediamo in prima persona l’impatto catastrofico che questo sta avendo sulla vita delle persone. La malnutrizione è sempre stata un problema in Afghanistan, ma non l’abbiamo mai vista su questa scala“.
Se i fondi per lo sviluppo non torneranno in Afghanistan e se l’economia non riceverà una spinta urgente -avverte INTERSOS- il sistema sanitario, già sovraccarico, sarà messo in ginocchio e la crisi della fame che sta attanagliando la nazione porterà ancora più bambini sulla soglia della morte.
INTERSOS esorta i Paesi donatori a finanziare interamente l’appello delle Nazioni Unite di 4.4 miliardi di dollari per l’Afghanistan, per consentire agli operatori umanitari di rispondere ai crescenti bisogni della popolazione. Tuttavia l’assistenza umanitaria da sola non può sostituire un’economia funzionante. Per questo INTERSOS chiede alla comunità internazionale e ai Talebani di trovare un modo per rispondere ai bisogni più urgenti della popolazione. Un modo chiaro per farlo sarebbe quello di restituire i beni congelati dell’Afghanistan alla banca centrale del Paese – la Da Afghanistan Bank (DAB) – e che i governi statunitense e polacco consegnino all’Afghanistan la valuta afghana stampata che è stata acquistata e pagata dal precedente governo lo scorso anno. Queste due misure affronterebbero la crisi di liquidità e consentirebbero alle persone di accedere ai propri risparmi, alle imprese di riaprire e alle persone di trovare lavoro, guadagnare un reddito e sfamare nuovamente le proprie famiglie. Inoltre, INTERSOS chiede il ritorno dei fondi per lo sviluppo nel Paese, in modo da garantire un’assistenza a lungo termine e permettere a tutti coloro che hanno bisogno di cure sanitarie di riceverle nel momento in cui ne hanno più bisogno.
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Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.