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La Siria è un paese in conflitto dal marzo del 2011. Nove anni di crisi umanitaria complessa che hanno costretto oltre 6,8 milioni di persone a lasciare la propria casa, partire senza sapere quando poter ritornare. Il COVID-19 è arrivato prima di un loro ritorno, si è diffuso in tutta l’area del Medio Oriente e, oggi, conta nel territorio siriano 47 persone ufficialmente affette (di cui 3 vittime e 29 persone guarite).
I numeri non sempre devono avere un peso specifico limitato alla loro mera grandezza decimale, a volte è necessario misurarli in rapporto al contesto nel quale si manifestano. 47 contagi in un paese come la Siria – dove poco più della metà delle strutture ospedaliere è funzionante e la restante parte è stata distrutta dai bombardamenti nel corso degli anni del conflitto – può definire una condizione ad alto rischio sanitario.
11,7 milioni di persone necessitano ancora oggi di assistenza umanitaria e 6,2 milioni sono gli sfollati interni. I bisogni umanitari in Siria sono grandi e complessi, si espandono in tutti i settori e quello sanitario è indubbiamente tra i più labili. La carenza di acqua pulita, fondamentale per supportare le buone pratiche igieniche, è un problema che accomuna molte parti del paese.
La pandemia, in uno scenario di conflitto, equivale alla somma di un dramma nel dramma. Vi è la necessità immediata di aumentare l’autotrasporto e la fornitura di prodotti per l’igiene come il sapone, fondamentale per il banale seppur determinante lavaggio delle mani. “Gran parte della popolazione siriana vive in centri urbani ad alta densità, insediamenti informali o campi sovraffollati, rendendo quasi impossibile l’applicazione delle misure di distanziamento”, afferma Giulia Campigotto, program manager di INTERSOS in Siria, “abbiamo avviato sin dall’inizio dell’emergenza un progetto in collaborazione con SARC (Syrian Arab Red Crescent), per prevenire e contenere la possibile diffusione del virus”.
L’intervento di INTERSOS è rivolto a supportare il piano di risposta nazionale al COVID-19 attuato dal ministero della salute siriano e al piano di risposta di SARC, intervenendo nelle aree densamente popolate di Damasco e Hama, caratterizzate dalla presenza di un alto numero di sfollati (una persona su tre in queste aree è stata costretta a lasciare il proprio luogo di residenza abituale).
La risposta umanitaria di INTERSOS si articola su diversi fronti: prevenzione della diffusione del contagio (quella che in gergo tecnico viene chiamata IPC, prevenzione e controllo delle infezioni) tramite la formazione del personale medico – sanitario, distribuzione di materiale medicale e monitoraggio per garantire il buon funzionamento dello screening medico ed infine la sensibilizzazione comunitaria mediante la diffusione di messaggi di prevenzione via radio e la formazione di operatori sanitari e non a livello comunitario, creando un sistema “sentinella” a livello delle comunità per l’individuazione precoce di casi sospetti.
“La formazione delle comunità locali diventa un elemento essenziale per far fronte al rischio del contagio”, racconta Giulia, “attraverso la formazione di alcuni membri delle comunità, riusciamo ad informare le persone sulle buone pratiche igieniche e i rischi della malattia“, un lavoro di prevenzione che parte dalla conoscenza prima di tutto.
Attraverso specifiche formazioni su prevenzione e risposta al virus COVID-19, gli operatori INTERSOS stanno formando 50 persone tra cui operatori sanitari e volontari di SARC. Il sistema sanitario pubblico si presenta fragile dopo anni di conflitto. Vi è una carenza generale di personale qualificato e strutture adeguate alle cure: se nel governatorato di Damasco sono disponibili solo 18 posti letto d’ospedale per 10.000 persone, molti altri governatorati ne sono totalmente privi. Nella Damasco rurale ci sono 5 posti letto per 10.000 persone, Homs e Dar’a ne possiedono entrambe 3, dati ben al di sotto del normale standard indicato dall’Interagency Standing Committee (IASC) che prevede un minimo di 10 posti letto per 10.000 persone.
L’emergenza mondiale della pandemia richiede ad ogni Stato la capacità di poterla affrontare con misure idonee alla sicurezza e salute delle popolazioni, ad oggi però si stima che il servizio sanitario siriano abbia una capacità massima di gestire 6.500 casi.
Se il contagio del COVID-19 dovesse aumentare nel corso delle prossime settimane, la Siria, già martoriata da una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta, potrebbe addentrarsi in una fase buia senza possibilità di uscita. I civili vivono in condizioni di sopravvivenza con elevato rischio di esposizione al virus, come nel nord-ovest del paese dove oltre mezzo milione di coloro che sono stati recentemente sfollati a causa dell’escalation del conflitto avvenuta lo scorso dicembre, dormono all’aperto, in tende o rifugi di fortuna.
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Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.