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Si può fare. E quel “fare” forse potrebbe diventare un esperimento utile per molti altri. Perché avviene in una situazione difficilissima. Anzi, a voler essere pignoli, e a voler tradurre le statistiche, avviene nella seconda situazione più difficile del pianeta. Almeno, in una graduatoria particolare. Sì, perché in Giordania (si parla proprio di questo paese), dopo l’acuirsi della crisi siriana, ha trovato rifugio un milione di profughi. E secondo la comunità internazionale è la nazione col secondo maggior numero di rifugiati registrati in rapporto alla popolazione.
Giordania, dunque. Con un afflusso di migranti, di famiglie che non ha quasi paragoni. Con tutto ciò che questo potrebbe comportare: un aggravarsi, drammatico, delle condizioni socio-economiche del paese che, a sua volta, comporta un acuirsi delle tensioni. Con la concorrenza fra manodopera, con la saturazione del già povero welfare nazionale. Col collasso di molti dei servizi pubblici.
E allora? Ecco appunto quel “fare” di cui si parlava all’inizio. Avviene in un triangolo, fra Ajloun, Irbid e Mafraq, una novantina di chilometri a nord di Amman. Qui, due anni fa è partito – e si concluderà quest’estate – un ambizioso progetto, allestito da Acted, Action Against Hunger ed InterSos. S’è cominciato proprio dall’emergenza più drammatica: quella dell’acqua. Un’emergenza, beninteso, che era preesistente. Bastano pochi dati per inquadrare il problema: nel 94 per cento delle zone rurali giordane non c’è rete fognante. Percentuale che scende se si considera l’intero paese ma, se possibile, la cifra rende la fotografia ancora più drammatica: il 42 per cento delle famiglie giordane non può scaricare le acque reflue in una rete pubblica. E ancora: nove anni fa in Giordania andava persa il 42 per cento dell’acqua prima che arrivasse nei rubinetti delle case (quella che si chiama, tecnicamente, “non-revenue water”). Due anni fa, quella percentuale era salita al 48 per cento.
Insomma, anche in questo caso una “classifica”, per quel che può valere: la Giordania è il secondo paese al mondo più povero d’acqua.
In questo contesto, sono arrivati i profughi. Rendendo tutto più difficile. Difficile ma non impossibile. E si è cominciato a lavorare.
Come? Inventandosi un progetto ed un consorzio (si chiama WAAD).
Un progetto che nasce (ed è cresciuto) avendo in mente un obiettivo: migliorare la situazione. Ma attenzione: migliorare la situazione per chi in Giordania ci ha sempre vissuto come per chi è stato costretto ad arrivarci. Ecco allora i piani (finanziati con un badget di tredici milioni di euro) per le infrastrutture idriche e igienico sanitarie. Ecco allora i progetti nelle scuole, negli ospedali, nei centri di detenzione (sì, nelle carceri dove magari ancora bisogna superare un po’ di diffidenza ma dove gli interventi non sono più rinviabili).
E ancora. C’è il sostegno alle autorità locali che si occupano di “governare” i problemi idrici, c’è la spinta al varo di nuove, importanti opere infrastrutturali. Che significano anche lavoro. Per giordani e rifugiati.
L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma anche in questo caso più che la quantità conta la qualità degli interventi. Tradotto, vuol dire il coinvolgimento delle popolazioni. Di nuovo, a rischio di essere noiosi: giordane e siriane. Nascono così i “comitati Wash”, composti da famiglie che, dopo un breve corso, ora sono addirittura in grado di intervenire per i primi lavori di manutenzione alla rete idrica. E poi ci sono i corsi per insegnare come si conserva l’acqua, come non si spreca. Come utilizzarla al meglio.
Abu Ahmed, è il capofamiglia di una mini-comunità ad Ain Janneh, nel governatorato di Ajloun. Guida un nucleo formato da 15 persone destinato a crescere, con le famiglie dei suoi figli sposati che condividono lo stesso edificio. E’ lui a raccontare: “Mi chiedete dell’acqua? Ci rifornivano una volta ogni due settimane. Non bastava, non poteva bastare. Senza contare che l’acqua al secondo piano non arrivava mai. Mai”. Per questo, dovevano comprarla dai camion-serbatoi dei privati. Ora, non devono più farlo. L’acqua arriva a casa sua. Quanto basta.
Abu Ahmed ha risolto uno dei problemi più drammatici che hanno segnato la vita della sua famiglia. Ma in tanti altri modi la loro condizione, la condizione delle famiglie giordane e siriane, sta lentamente migliorando. Sì, perché all’interno del progetto di ACTED, Action Against Hunger ed InterSos, ci sono anche misure specifiche per sostenere le battaglie legali degli inquilini contro l’aumento delle tariffe (ed anche contro l’aumento degli affitti, il progetto fornisce assistenza anche in questi casi). Non solo, ma i “comitati Wash” si occupano dei giovani, delle donne. Pure qui, va sottolineato sempre: siriane e giordane. Perché dalle esperienze fatte nel campo del risanamento igienico-sanitario hanno acquisito professionalità che possono far valere nel mondo del lavoro. Insieme. Senza tensioni.
Funziona? Comincia a funzionare? I numeri si avranno ovviamente a chiusura del progetto (luglio 2019). Ma mai come in questo caso, contano di più le persone. I giudizi delle persone. Om Hashem è una casalinga, cura una famiglia di sei persone “Prima dovevo pagare 20 jod per ordinare l’approvvigionamento idrico supplementare ogni mese”. Quasi venticinque euro in un paese dal reddito medio bassissimo.
“Anch’io” – aggiunge Om Rashed. Pure lui vive nella piccola comunità di Ain Janneh. “Dovevamo pagare per l’acqua extra. E tanto. Ora non più”.
Quel “fare” insomma sta cominciando a cambiar loro la vita. Non è poco.
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Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.