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Il 17 febbraio di un anno fa, una giovane donna di nome Falmata è entrata nella struttura sanitaria di INTERSOS a Bama, nel nord est della Nigeria. Era in preda a evidenti dolori ed era in procinto di partorire. Dopo essere stata visitata e assistita, ha partorito una bambina sana. Subito dopo però si è rifiutata di allattarla. “No, non posso farlo, il primo latte materno è dannoso per i bambini“, ha detto decisa alle ostetriche.
Secondo la tradizione di quelle zone, il primo latte materno non è sano e dovrebbe essere tirato e gettato via. Fortunatamente dopo che il nostro personale sanitario ha spiegato a lei e ai suoi parenti l’importanza dell’allattamento per il bambino sin dalle prime ore di vita, Falmata si è convinta e ha accettato di allattare. Anche il Bulama (leader della comunità), in quanto figura potente nell’influenzare la cultura, è stato incoraggiato a diffondere nella comunità il messaggio che rifiutarsi di allattare subito i neonati è dannoso.
Alcune pratiche culturali e tradizionali, come quella di privare il bambino delle sostanze nutritive contenute nel latte materno, sono in realtà rischiose e rappresentano una grande sfida in comunità come quella di Bama, nello Stato del Borno, dove stiamo fornendo assistenza sanitaria e nutrizionale a madri e bambini. Queste credenze hanno purtroppo nel tempo contribuito ad aumentare il tasso di malattie e di decessi di mamme e bambini sotto i 5 anni a causa della malnutrizione e delle infezioni.
Prima del nostro arrivo, la comunità aveva più fiducia nelle donne che aiutavano le partorienti a far nascere i loro bambini a casa, piuttosto che dei professionisti che lavorano negli ospedali. Per far fronte a questa situazione, INTERSOS ha lavorato con le comunità e con le istituzioni religiose per incoraggiare le donne a fidarsi delle ostetriche professioniste e di altri operatori sanitari per far nascere i loro bambini in modo sicuro.
“Sono felice di avercela fatta dopo due giorni di travaglio prolungato. La mia bambina è viva e il latte materno che le ho dato le ha fatto bene“, dice Bawagana di Bulama Zaye, a Bama, all’ostetrica di INTERSOS che ha fatto nascere i suoi gemelli nella clinica. Lei è tra le donne che hanno partecipato alle sessioni di educazione sanitaria fatte nella sua comunità. Oggi, più del 63% delle donne incinte della comunità partorisce affidandosi a ostetriche professioniste o in una clinica o in un ospedale.
“La paura di pagare per il parto in ospedale era un altro fattore che impediva alle madri incinte di accedere alle cure mediche. Abbiamo dovuto insistere molto perché Bawagana venisse in clinica“, ha raccontato Victory, infermiera di INTERSOS. “Prima di venire qui non sapeva nemmeno di portare in grembo due gemelli”.
Il conflitto nel nord-est della Nigeria, che infuria da 13 anni, sta provocando l’aumento dei bisogni primari per moltissime persone: servono servizi legati all’igiene, accesso alla salute, cibo e trattamenti legati alla nutrizione. Qui fornire assistenza è particolarmente difficile, soprattutto perché molte località sono completamente isolate dal trasporto stradale e gli operatori umanitari devono viaggiare in elicottero per raggiungere le comunità.
Da settembre 2019 stiamo fornendo assistenza sanitaria e nutrizionale d’emergenza a circa 114mila sfollati in più 99mila comunità ospitanti nelle aree di governo locale di Ngala, Bama, Dikwa, Magumeri e Monguno nello Stato del Borno. Attraverso i nostri centri sanitari in queste località, INTERSOS ha contribuito a migliorare l’accesso a un’assistenza sanitaria di buona qualità per oltre 213mila comunità vulnerabili colpite dal conflitto prolungato.
Nell’ultimo anno INTERSOS nello Stato del Borno ha assistito più di 18mila donne nelle fasi pre e post partum e abbiamo coinvolto più di 47mila donne in sessioni di sensibilizzazione sulla gravidanza, sul parto sicuro e sull’allattamento.
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Mi chiamo Youssef e sono uno studente. Ho 20 anni e vengo da Al-Bayda, un governatorato dello Yemen. Studio medicina all’Università di Sana’a, questo per me è un privilegio in un paese come lo Yemen, dove il diritto allo studio è spesso negato. Raggiungere questo obiettivo non è stato facile, per me studiare medicina è sempre stato un sogno, ma le poche risorse economiche della mia famiglia e la scarsa offerta formativa del mio Paese, hanno reso il mio percorso più difficile. Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere di poter fare la differenza, continuare a sognare un futuro diverso. Vorrei diventare un medico, poter curare più persone possibili che ad oggi non hanno accesso alle cure. Nella mia città natale immagino che un giorno possa esistere un ospedale dove farsi curare possa essere la normalità e non più un diritto di pochi.
Sono Dania Yousef Madi, ho 26 anni e sono Palestinese. Studio ingegneria delle telecomunicazioni.
Le telecomunicazioni sono un campo molto vasto. L’ho scelto perché mi hanno sempre divertito le tecnologie, i segnali. Come sono collegate le chiamate, a quale larghezza di banda operano le aziende, ecc. Ha una buona prospettiva per il futuro, perché, come tutti sappiamo, la tecnologia sta aumentando. E la comunicazione è qualcosa che è molto importante nella vita quotidiana. Quindi, le possibilità non finiranno mai in questo campo
I miei genitori sono divorziati e mia madre era un’insegnante che cercava di prendersi cura di quattro figli, eravamo lontani dall’essere benestanti. L’unico modo che avevo per continuare i miei studi era ottenere la borsa di studio. Questo sostegno finanziario mi ha permesso di rimodellare la mia vita per proseguire meglio i miei studi universitari. Lavoravo mentre studiavo all’università, con la borsa ho potuto ridurre le ore di lavoro e dedicare più tempo allo studio, al completamento dei miei compiti di valutazione e, soprattutto, alla preparazione degli esami. Un grande peso mi è stato tolto dalle spalle grazie alla borsa di studio DAFI. Questa borsa di studio mi ha davvero concesso una seconda possibilità per raggiungere i miei obiettivi e lavorare al massimo delle mie potenzialità
Attualmente lavoro come education officer in INTERSOS e mi sforzo di non smettere mai di imparare e sviluppare le mie capacità, iscrivendomi e frequentando alcuni corsi e conferenze. Il mio sogno è quello di aiutare gli altri a realizzare il loro sogno. Fare qualcosa di prezioso per gli altri. Più in profondità, voglio vivere libera e aiutare gli altri a vivere liberi e appagati. Inoltre, un altro dei miei sogni più grandi è continuare gli studi e fare un master, che è il percorso migliore per lo sviluppo della carriera e un futuro migliore.
Mi chiamo Abd al-Karim Tawfiq Ahmed. Ho 24 anni e sono cresciuto nel governatorato di Al Dhalea, nello Yemen settentrionale. Sono uno studente di medicina al quarto anno presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Sana’a. Ho scelto medicina perché ho un forte interesse e una passione per la scienza, guidati da un innato desiderio di fare il possibile per aiutare le persone che soffrono. E poi la professione medica è una delle più ambite al mondo, competitiva e rispettabile.
Nel corso dei miei studi ho imparato il significato delle parole impegno, perseveranza e diligenza. La borsa di studio di Fondazione Lavazza mi ha aiutato a superare molte sfide, la copertura delle tasse universitarie in primis, che è stata per me una costante fonte di preoccupazione. Inoltre, la borsa di studio è un sostegno essenziale per le spese quotidiane.
Dopo aver ricevuto la borsa di studio di Lavazza, qualcosa è cambiato nel mio approccio e ora ho una visione più positiva della vita. Ho iniziato a studiare col sorriso e mi rendo conto di quanto sono fortunato ad avere avuto questa opportunità. Mi impegno di più con i miei compagni di corso e chiedo ai docenti ogni volta che c’è qualcosa che non capisco. Fin qui studiare non è stato facile, ma continuo a impegnarmi al massimo e spero tutto vada per il meglio, devo credere che sono in grado di diventare un buon medico!
In passato scherzavo sulla possibilità di diventare medico: oggi sono uno studente di medicina al quarto anno e ho ottenuto una borsa di studio che mi permette di credere in un sogno che si sta realizzando, di lavorare sodo, di potermi vestire bene, di avere le risorse per rendermi presentabile e non mollare mai. La borsa di studio ha acceso in me un rinnovato senso di ottimismo, dopo la laurea vorrei continuare il percorso di studi e intraprendere un master.
Mi chiamo Doa’a. Sono nata in Yemen in una famiglia povera.
Il mio futuro sembrava già scritto: una vita di privazioni, di lotta per la sopravvivenza e di sogni sepolti. Ero solo una bambina e già portavo sulle spalle il peso di un contesto particolarmente complesso per le donne a cui spesso viene negata la possibilità di scegliere.
Poi, un giorno, tutto cambiò con la mia determinazione a non accettare un destino già stabilito. Decisi di studiare ed avere un futuro diverso. Con fatica e sacrifici sono riuscita ad iscrivermi alla facoltà di Odontoiatria. Poi è arrivata la borsa di studio che mi sta permettendo di continuare il mio percorso accademico e di avvicinarmi sempre di più al mio obiettivo: diventare una dentista.
Doa’a è una studentessa che rientra nel nostro progetto “Borse di studio per l’istruzione di giovani yemeniti” finanziato da Fondazione Lavazza. La storia di Doa’a è una storia di resilienza e di speranza. A quasi un decennio dall’inizio del conflitto, il nostro intervento in Yemen non ha garantito solo accesso a cure mediche e beni essenziali o protezione per le persone sopravvissute a violenza. Abbiamo sostenuto anche l’istruzione perchè crediamo che l’unico modo per superare i conflitti sia investire nella formazione delle giovani generazioni.
Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.