La storia di Ali
Ali ha 46 anni e vive a circa 7 kilometri dall’ospedale di Jowhar, la struttura medica più vicina. Per arrivarci, ha dovuto guadare grandi aree di acqua stagnante, ultimi residui delle inondazioni che hanno completamente isolato diversi villaggi tra cui il suo. Quando, i primi di luglio, si è svegliato con tosse, febbre e difficoltà respiratorie ha ricevuto la visita del referente sanitario della sua comunità, che ha insistito perché andasse a farsi visitare all’ospedale di Jowhar. Ali allora è partito, ha attraversato le aree inondate, ed è arrivato all’ospedale, dove per prima cosa gli è stata misurata la temperatura. Alta. Le infermiere lo hanno fatto accomodare nell’area del pre-triage che è stata allestita all’ingresso dell’ospedale proprio per evitare la diffusione del COVID-19, e hanno chiamato il medico. Che ha somministrato del paracetamolo per abbassare la febbre. Dopo un’ora, la febbre era scesa, e il medico ha potuto fare un prelievo per far eseguire il test per eventuale diagnosi del COVID-19 presso il laboratorio di Jowhar. Negativo. Ali soffriva di problemi respiratori, curabili con una settimana di medicine specifiche. Niente COVID-19, niente paura di essere stigmatizzato o emarginato dalla sua comunità. Una settimana di medicine e poi di nuovo in salute. Quando la settimana successiva è tornato per la visita di controllo, era tutto a posto, tutto passato. Un’ultima raccomandazione sulle distanze di sicurezza e sul lavarsi frequentemente le mani e usare gel idroalcolico, e poi a casa.
La crisi umanitaria in Somalia
Quella di Ali è una storia a lieto fine. Una malattia come tante altre, curabile in modo relativamente facile. Ma che in questo periodo fa tanta paura, perché associata al COVID- 19, l’incubo che ha flagellato l’occidente e che ora sta silenziosamente colpendo i paesi più poveri. C’è chi come Ali riesce a guarire e chi invece contrae il coronavirus e non ce la fa, perché si ammala in contesti in cui il sistema sanitario è fragilissimo, se non inesistente. E’ il caso della Somalia, che dalla caduta di Siad Barre nel ’91 non ha mai più trovato pace, e anzi ha sommato all’instabilità politica carestia, inondazioni, e ripetuti attacchi di gruppi armati che di fatto gestiscono il controllo del territorio. Due milioni di rifugiati somali nel mondo, un milione di sfollati interni e circa due milioni e mezzo di persone che hanno bisogno di aiuti umanitari. E un sistema sanitario molto debole che non ha le risorse per far fronte alla pandemia. “Negli ospedali mancano test per individuare i nuovi casi di contagio, dispositivi di protezione personale per gli operatori sanitari, ossigeno e ventilatori per trattare i malati. Gli unici centri identificati per effettuare i test sui casi di COVID-19 si trovano nella capitale Mogadiscio e a Jowhar”, racconta Philippe Rougier, capo missione di INTERSOS in Somalia. Nonostante gli sforzi di coordinamento nazionale e regionale del governo fin dall’inizio della pandemia, il ruolo delle ONG e degli attori della società civile resta fondamentale per garantire la copertura dei servizi primari.
Il COVID-19 in Somalia
Ad oggi, i casi confermati di COVID-19 in Somalia sono 3161 e 93 i morti. Ma vista la carenza di strumenti diagnostici, test e personale sanitario, si stima che i casi di contagio siano sicuramente maggiori. Altra spia è l’aumento esponenziale del numero di funerali, specialmente nell’area di Mogadiscio, quella più popolosa, quella in cui si segnala la maggior parte dei casi di contagio. All’inizio del lockdown, molte persone davano poca importanza ai sintomi del coronavirus, abituati da decenni a dover fare i conti con malattie mortali sempre presenti come malaria, colera, morbillo. E’ molto probabile che nei primi mesi di diffusione della pandemia, alcune morti per COVID-19 siano state attribuite ad altre cause. Mentre oggi, la percezione del contagio è cambiata e la stigmatizzazione dei malati è forte. Per evitare di essere isolati ed emarginati, molti che presentano sintomi riconducibili al coronavirus rinunciano a farsi visitare o ad andare in ospedale. In questo contesto, il lavoro dei referenti medici di comunità e dei volontari che promuovono le buone pratiche igieniche e di prevenzione risulta fondamentale, se non proprio vitale. Sensibilizzare la comunità alle pratiche per evitare il contagio e formarla su come fare in caso di infezione è molto importante per contenere la propagazione del virus. Fortunatamente, l’ospedale di Jowhar è sufficientemente attrezzato per essere un punto di riferimento per tutta la regione.
L’ospedale di Jowhar e la risposta alla pandemia
E’ il 1992. Nasce INTERSOS con la sua prima missione: Somalia. Il 15 marzo 1994, l’Ospedale Regionale di Jowhar viene preso in carico da INTERSOS e inizia ad essere operativo per curare l’intera popolazione della regione del Medio Shabelle. L’ospedale, attivo da allora, resta l’unica struttura sanitaria e il centro di riferimento per tutti i centri di salute primaria della regione, coprendo un bacino di oltre 250mila persone. Oggi a Jowhar ci sono 97 posti letto e 75 tra personale sanitario e staff, in una struttura che opera con un raggio di azione di oltre 60 km e che rifornisce due cliniche mobili e diverse cliniche locali. L’ospedale è il centro di un network sanitario che coinvolge i distretti di Jowhar, Balcad, Hawadley e Warsheik. L’ospedale cura mediamente 350.000 persone all’anno. Per far fronte alla pandemia, INTERSOS ha creato un pre-triage all’esterno della struttura e progettato un’area di isolamento mediante l’allestimento di quattro tende. Sono state costruite cinque latrine aggiuntive, di cui due nel sito di isolamento per i pazienti sottoposti a trattamento medico, due per il team di risposta medica, la quinta per i beneficiari che accedono ai servizi ospedalieri su base giornaliera. Ogni latrina ha il proprio rubinetto per il lavaggio delle mani con acqua corrente.
All’ingresso dell’ospedale, un team dedicato effettua lo screening e la misurazione della temperatura a tutti i pazienti che accedono in modo da isolare chi dovesse presentare febbre alta. A questo si aggiungono i team mobili composti dal nostro personale medico che si muovono per fare sensibilizzazione e prevenzione del COVID-19 alla comunità locale, in particolare in 4 campi abitati da sfollati in due villaggi remoti, luoghi in cui le persone sono più a rischio contagio e hanno più difficoltà ad accedere all’ospedale, incoraggiando una maggiore attenzione nella messa in pratica delle misure di sicurezza. Ad oggi, sono 14.521 le visite mediche di base fatte nell’ospedale di Jowhar per l’individuazione di potenziali casi di contagio.