Fausta Micheletta, dopo la missione al confine tra Moldavia e Ucraina, racconta: “Le donne, dopo tanto stress e ansia, arrivano da noi e crollano”

foto ©Alessio Romenzi per INTERSOS

 

 

Fausta Micheletta è un medico internista e risk manager che lavora a Roma. Ha collaborato nel corso degli anni in diversi contesti di guerra e crisi umanitarie. Ad inizio marzo, nella prima fase dell’emergenza legata alla guerra in Ucraina, si è unita al nostro team in Moldavia per dare soccorso e assistenza alle persone in fuga. “I bisogni sanitari sono davvero tanti, fisici ma anche psicologici”, ci racconta al suo rientro in Italia. “Le donne, dopo tanto stress e ansia, arrivano da noi e crollano”.

Palanca, Moldavia Alessio Romenzi per INTERSOS
Fausta Micheletta a Palanca, Moldavia. ©Alessio Romenzi per INTERSOS

Quali sono nello specifico i bisogni sanitari che hai riscontrato nelle persone arrivate al confine?

 

I bisogni sanitari sono tanti. Da una parte ci sono le persone con patologie croniche come diabete, ipertensione arteriosa, asma, cardiopatie che arrivano al confine con forme di iniziale scompenso in quanto non hanno potuto prendere con regolarità i propri farmaci perché ormai difficili da reperire e/o non portati con sé durante la fuga. Dall’altra persone, soprattutto bambini e anziani, con sindromi da raffreddamento e bronchiti, dovuti alle temperature molto rigide degli ultimi giorni. In questi giorni ho assistito inoltre persone con problemi legati allo stress e all’ansia. In particolare, abbiamo accolto donne che sono scappate con i loro bambini senza dormire per giorni e giorni, vivendo in silenzio l’ansia e la paura per non spaventare i propri figli. Una volta arrivate al confine, al sicuro, lontane dagli occhi dei bimbi nella clinica mobile finalmente possono lasciarsi andare. Quando visitiamo un paziente cerchiamo di individuare il problema e cerchiamo di fargli iniziare, quando necessario, una terapia o fargli riprendere le terapie interrotte cercando di dare un quantitativo sufficiente di farmaci da portare con sé nel proseguo del viaggio.

 

Cosa ti ha colpito di questa situazione?

 

Mi ha colpito tanto vedere arrivare tutte queste mamme, donne della mia età, che hanno in carico i bambini e i nonni. Sono sole, con la responsabilità di portare al sicuro la famiglia e l’angoscia di aver lasciato in Ucraina il proprio partner. Ho iniziato a guardarle da quando sono arrivata e a immedesimarmi con loro, ho pensato a mia figlia di 8 anni e a come sarebbe stato se mi fossi trovata a dover fuggire all’improvviso con lei e con i nonni e alla speranza che avrei avuto di trovare salvezza e accoglienza dall’altra parte della frontiera.
Un’altra cosa che mi ha colpito è la grande disponibilità e impegno dei volontari locali, della chiesa e dei pompieri: quello che ho percepito è stato uno spontaneo spirito di lavorare insieme, con grande collaborazione, per rispondere ai bisogni senza alcuna forma di diffidenza o chiusura.

 

Quali sono le differenze con le altre crisi in cui ti sei trovata nelle esperienze fatte in ambito umanitario?

 

Ho vissuto esperienze in contesti completamente diversi tra loro e questo cambia molto la prospettiva da cui si guarda una guerra, cambia il punto di vista. Ho lavorato in Sri Lanka dopo una lunghissima guerra, in un contesto in cui non c’era più nulla dal punto di vista sanitario, nemmeno i medici, e bisognava ripristinare tutto mentre si lavorava alle esigenze sanitarie quotidiane della popolazione. Qui l’emergenza era rendere di nuovo disponibile l’accesso alle cure, il contesto era quello in cui vedi quello che rimane dopo una guerra.
Altre esperienze le ho avute in paesi in guerra, la Siria e la Costa d’Avorio: contesti in cui l’attività si focalizzava principalmente sulla chirurgia di guerra. L’assistenza ai feriti e ai pazienti in generale in contesti così ti fa vivere h24 pensando solo a quello che stai facendo in quel momento senza mai alzare lo sguardo, prendere fiato, non c’è spazio per pensare.
Qui al confine con l’Ucraina invece sei fuori e la prospettiva è diversa, vedi le persone che sono riuscite a uscire dal loro paese e hanno una serie di bisogni di salute e l’urgenza di essere accolti. E qui su quel confine li accogli, hai la capacità di dare una risposta sanitaria, hai la possibilità di ascoltare, di parlare e di fare riflessioni con più calma. Rappresenti in sostanza il ponte tra il dentro e dove andranno. Un’esperienza nuova che non mi era mai capitato di vivere.

 

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